Incontrai la psicologa sabato mattina e mi diede dei documenti da firmare per confermare l’induzione. Entrai nel suo studio così arrabbiata, che non avrei mai immaginato di poter essere invece accolta e ascoltata con tanta dolcezza. Almeno lei era risparmiata dal mio circolo d’odio! Mi ascoltò attentamente, le mie parole di odio verso la cura che abbiamo ricevuto dal ginecologo, verso le linee di condotta dell’ospedale. Mi chiese le ragioni per la nostra scelta. ‘Devo risponderle quello che vuole sentirsi dire, o quello che penso veramente? Vuole che le rispondo che ho preso questa scelta perché mia figlia minaccia la mia sanità mentale?’ Le risposi. ‘Puoi rispondermi con la verità.’ Mi ascoltò e mi osservava con uno sguardo d’amore, non di pietà nè di giudizio. ‘Vedo che questa scelta è molto sentita e ponderata e che è basata anche su molta ricercar che hai condotto sia internamente che esternamente a te stessa. Adesso, l’unica cosa che possiamo fare e che è giusto fare allora, è andare avanti e affrontare cosa viene dopo.’ Mi fece firmare, mi diede dei fazzoletti e mi promise che sarebbe stata disponibile per me in qualsiasi momento ne avessi bisogno, prima dell’induzione, durante e dopo. Dopo non si limitava al dopo il parto, ma anche giorni, mesi, anni dopo la nascita di mia figlia. Uscimmo dalla stanza e un neonato uscì dalla sala parto, che venne subito circondato da tutte quelle persone, amici e parenti, che si congratularono col padre. Oh, il mio cuore, il dolore. Oh, che odio incandescente. Il giorno prima dell’induzione non ebbi più paura, non mi sentivo peggio o più triste, non avevo neanche più paura del dolore fisico che avrei provato. Semplicemente non vedevo l’ora di conoscerla. Da tre giorni la sentivo scalciare regolarmente, sempre di più fino al giorno dell’induzione. Mercoledì 29 novembre alle 8 di mattina arrivai all’ospedale con mia madre e la mia borsa d’ospedale. Avevo con me il diario che scrivo per Ida, il mio e-book reader, la sua copertina e cappellino che ho imparato a fare all’uncinetto per lei, il suo ciondolo in legno fatto da suo papà, un cambio di vestiti per me, il mio pigiama e le pantofole. Arrivammo al reparto maternità e un dottore fece la mia ammissione molto freddamente. Mi chiese ancora una volta le stesse domande. Salutai allora le ostetriche, che non mi ricambiarono il saluto. Forse credevano fossi una persona in visita, o forse credevano fossi soltanto un’assassina. Mi portarono alla mia stanza, alla fine del corridoio, camera numero 3, una camera verde con una grande finestra e due letti vuoti. Presi quello più lontano dalla porta e più vicino alla finestra. Ero sollevata dal fatto di essere sola nella stanza e che avesse anche un bagno privato all’interno. Un’ostetrica mi fece distendere per prendermi il sangue e fare degli esami preliminari. Parlammo del più e del meno, mi chiese di Ida, le parlai della nostra storia, del mio dolore e del mio amore per lei. Misi sopra la mia testa il mio piano nascita e cominciai a fissare il muro di fronte a me con le mie mani sulla pancina, sentendo e immortalando nel mio cuore ogni ultimo calcio. Continuavo a ripeterle ‘ti amo, ti amo, …’ Mia madre arrivò dopo aver parlato con i servizi sociali per organizzare il seppellimento di Ida. Eravamo I primi a chiedere una cosa del genere per un’interruzione di gravidanza. Non ci potevo credere. Non avevano idea di come procedere! Così tanti bambini erano finiti nell’inceneritore in questi anni perchè le loro madri non sapevano ci fosse altra scelta. Dovemmo pagare circa 500 euro per un seppellimento non permanente al cimitero, perchè l’ospedale non voleva prendersene carico. Il mio nuovo ginecologo non era ancora arrivato, sarebbe arrivato alle 13.30. Erano tutti pronti a indurmi, ma c’erano solo ginecologi obiettori di coscienza. Due di questi entrarono nella stanza lamentandosi tra di loro che non volessero farlo. Una di loro mi chiese ‘Tesoro, te la senti di metterti la candeletta da sola?’. Le fissai sbigottita e risposi ‘Non vorrei essere qui neanche io. Amo mia figlia e si chiama Ida’. Cominciammo a parlare di lei e della nostra storia. Alle 11.30 la prima candeletta era stata pressata sulla mia cervice da una delle due, con lo stupore di tutti: non aveva mai accettato prima. Aveva capito. Nello stesso modo mio padre capì, piangendo davanti a me dopo aver letto il nostro piano di nascita, preparato per proteggerci, che mostravamo a ogni infermiera, Ostetrica, ginecologo che entravano nella stanza. Tutti capirono. Dopo un’ora dalla prima candeletta sentii il suo ultimo calcio. Poi il mio utero cominciò a combattere contro questo dolore e questo furto insopportabile. Per tutto il tempo le sussurrai quanto l’amassi. Se solo fossi potuta morire al suo posto, morire e farla nascere sana e viva. Il mio ragazzo fu accanto a me fino a sera, facendomi sorridere, tenendomi la mano, baciandomi. Poi divenne sempre più spaventato e irrequieto e quando gli chiesero se volesse essere accompagnato a casa vidi che nel suo cuore avrebbe preferito andare. Gli dissi di andare, che mi sentivo protetta abbastanza con la presenza di mia madre e che lo preferivo in un posto dove si sentisse anche lui al sicuro. Mi chiese più volte conferma e poi se ne andò. Stesi con mia madre, mi sentivo sicura di potermi lasciare andare al mio me più grezzo, al dolore e a qualsiasi cosa sentissi senza preoccuparmi di lei. Misero altre 3 candelette, le ultime per la giornata e rimaneva soltanto l’attesa. A mezzanotte cominciarono le contrazioni, regolari, più forti, più lunghe e con meno intervallo tra di loro di quelle che avevo osservato nei parti fisiologici durante il praticantato in ostetricia. Alle 5 di mattina mi si ruppero le acque e, dopo una pausa, le contrazioni ricominciarono con più forza. Ero distrutta dal dolore, disidratata perché non mi permettevano di bere in caso di dover scappare in sala operatoria, distrutta dalla diarrea e febbre causate dall’induzione. Mia madre è sempre stata accando a me, tenendomi la mano, lasciandomi stringere le sue quasi a disintegrarle, guardandomi con così tanto amore. Chiedevamo entrambe a Ida di nascere presto, di risparmiarmi altro dolore. Cercavo di controllare il mio respiro come avevo tante volte consigliato alle mamme in sala parto, ma tutto questo non mi avrebbe avvicinato alla mia bambina. Volevo mia figlia viva tra le mie braccia. Stavo annegando sotto quelle contrazioni che mi allontanavano da mia figlia una contrazione alla volta. Finalmente decisero di portarmi in sala parto. Mi ricordo il sentirmi così confuse mentre mi muovevano con tutto il letto, le luci dei corridoi e ascensore che si mescolavano a facce diverse. Una faccia conosciuta si avvicinò, mi strinse la mano e mi diede parole di incoraggiamento: era una studentessa psicologa che avevo incontrato sabato mattina. Sarebbero state lì per me per tutto il tempo che le avrei volute e le avrebbero concesso di rimanere. Presimo l’ascensore e mi misero in attesa nel corridoio sul mio letto mentre preparavano la sala. Le due Ostetriche si presentarono ‘Hai dato un nome alla bambina Tesoro?’, 'Ti dispiace se la battezzo quando nasce?'. Non riuscivo a crederci, quelle domande rendevano omaggio all’esistenza di mia figlia. Mi sentii così fortunate. Si presero cura di me, della mia bambina e di mia madre, assecondando ogni nostro desiderio. Alle 10.05 Ida nacque, senza ulteriori spinte, senza contrazioni, dopo una pausa dall’ultima forte contrazione. L’ostetrica stava ritornando per dirmi che avrebbero dovuto ricominciare a indurmi con le candelette, ma Ida arrivò quasi come se mi volesse dire che avevo sofferto abbastanza. Da quel momento il dolore si trasformò in gioia. Mi sentii così felice di conoscerla finalmente e tutti nella stanza mi circondavano di amore e congratulazioni per la mia prima bimba. Era attaccata a un cordone ombelicale cortissimo che probabilmente non l’avrebbe fatta sopravvivere e la sua testolina mostrava una contusione del parto e delle patologie associate alla sindrome di down. L’ostetrica la tenne dolcemente vicina a me quando mi cambiarono di letto fino a quando le tagliarono il cordone. Come avevo chiesto, mi avvicinarono la bambina avvolta dalla copertina che le avevo ricamato, ma senza il cappellino a causa della testolina troppo fragile. Era bellissima, aveva già folte sopracciglia bionde, le mie coscione muscolose, I piedi e le labra di papà. Mia madre la teneva quando avevo bisogno di riposare un attimo, rimanendo la mia avvocatessa, incoraggiandomi a baciare Ida e toccarla. Esitavo all’inizio, sembrava così fragile. Realizzai che Ida era unicamente lei. Mia figlia Ida Saoirse. Per sempre lei, mai rimpianta, mai rimpianto il dolore che ha circondato la nostra storia, perchè l’amore è prevalso e si è espanso. Lei è la bimba che mi ha insegnato ad essere mamma, con soli pochi mesi di esistenza dentro di me. Mi ha insegnato e mi insegnerà così tante cose. Mi portarono in sala operatoria perchè la placenta non si distaccava. Dovetti dare un ultimo addio a mia figlia. Che fu durissimo e mi riportò giù nel dolore. La baciai e fui anestetizzata, sentendomi in buone mani e con mia madre presente che mi avrebbe protetta. Amo mia madre in maniera differente adesso perché ho finalmente capito cosa sarebbe disposta a fare per I suoi figli. Quando mi disse ‘quanto vorrei avere tutto questo nel mio corpo, al posto tuo, risparmiarti da questo dolore e prenderlo dritto al mio cuore’ sapevo lo provasse davvero. Lo so anche io, l’ho fatto per mia figlia. Mi riportarono via col mio letto e mia figlia chiusa delicatamente in un box da portare al mortuario. Glie la dovetti lasciare. Le persone nel corridoio mi guardavano, guardavano al box e sussurravano tra di loro. Forse dicevano ‘guarda, probabilmente è un bambino morto. Un altro bambino trascurabile, uno morto con una madre trascurabile sono arrivati. Mi sentii così distrutta dal dolore. Ero di nuovo nella mia stanza. Mi avrebbero lasciata tornare a casa nel pomeriggio. Volevo andare a casa, nel mio letto, col mio ragazzo. Non lo incolpavo per non aver visto Ida o non esserci stato per il travaglio. Entrambi sentivamo fosse meglio così. Avevo mia madre e non me ne sono pentita neanche un secondo. Mi dispiace soltanto che si sia perso qualcosa che nessuno gli potrà tornare indietro. E qualche giorno dopo ammise di essersene pentito. Lo stesso giorno che tornai a casa volle vedere le foto scattate da mia madre, ma rimpiangeva ugualmente di non averla incontrata. Mi ammise che lo rimpiangerà per sempre, sentendosi di aver mancato ai suoi doveri di padre e che non riuscirò a farlo sentire meglio o fargli cambiare idea. Non potevo cambiare quello che era stato, lo sapevo fin troppo bene.
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Gloria. 1995.
Mamma.Invisibile di Ida, ITG alla 17esima settimana. Studentessa ostetrica a Dublino. Categorie
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Novembre 2019
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